I 'bianchi': la tecnologia in cucina in 'Il Contributo italiano alla storia del Pensiero: Tecnica'
I ‘bianchi’: la tecnologia in cucina
Una storia di successo
L’industria italiana degli elettrodomestici è stata – nonostante i colpi della crisi economica tra primo e secondo decennio del 21° sec. – una storia di successo. Benché l’opinione pubblica, e in parte la stessa storiografia generale, sembrino esserne piuttosto inconsapevoli, questa industria è stata un motore del miracolo economico, di rilievo almeno pari a quello della motorizzazione di massa, e, a differenza dell’industria dell’auto, è rimasta competitiva a livello nazionale e internazionale senza beneficiare di politiche specifiche o di particolari incentivi e protezioni, se non per quanto riguarda le misure generali che hanno accompagnato, in alcune fasi economiche, i processi di ristrutturazione industriale. Dopo aver raggiunto un’importante posizione globale come Paese produttore nella seconda metà del Novecento, l’Italia resta uno dei maggiori protagonisti mondiali di questo mercato.
Nel panorama nazionale quello degli elettrodomestici è il secondo settore industriale, che conserva sotto il controllo italiano almeno due grandi multinazionali (Candy Hoover group della famiglia Fumagalli e Indesit company di Vittorio Merloni e figli) e diversi gruppi di dimensione medio-grande (tra questi Bompani, Glem gas, SMEG e la galassia aziendale della famiglia Nocivelli); vi è inoltre un’importante attività produttiva collocata sul territorio nazionale, benché collegata a marchi italiani passati sotto il controllo di importanti gruppi europei ed extraeuropei (tra i maggiori: Electrolux, Whirlpool, BSHG-Bosch und Siemens Hausgeräte). Un segnale, questo, che per gli elettrodomestici l’Italia è stata, e potrebbe continuare a essere, ancora competitiva.
Nella gamma degli elettrodomestici si distinguono tre sottosettori principali (Pepe 1988, pp. 20-21): i piccoli elettrodomestici (ferri da stiro, bollitori elettrici, ventilatori, aspirapolvere e, in tempi più recenti, numerosi piccoli strumenti da cucina, come tritacarne, frullatori, impastatrici ecc., talora anche integrati fra loro); gli elettrodomestici ‘bruni’ o ‘marroni’ (traduzione dell’inglese brown), cioè gli apparecchi elettrici per la comunicazione e lo svago (telefoni, televisori, giradischi, registratori, radio ecc.), storicamente contenuti in involucri di legno o di materiali sintetici, marroni o neri (anche se oggi il colore dei nuovi strumenti, ad es. decoder o lettori di CD e DVD, fino agli odierni computer portatili, è grigio o comunque metallizzato); e infine i ‘bianchi’, ovvero gli elettrodomestici di maggiori dimensioni, tradizionalmente contenuti in una scocca metallica smaltata, del colore simbolo dell’igiene e della luminosità. Esistono fra questi prodotti, accanto alle differenze, numerose affinità: alcune sono di tipo tecnologico-produttivo, in quanto ormai da qualche decennio la loro traiettoria tecnologica è comunque orientata all’elettronica, nell’ambito di un ideale ‘sistema integrato casa’; altre sono legate al mercato di consumo, in quanto si tratta di beni principalmente destinati a una stessa utenza (la famiglia) e a uno stesso luogo (la casa), e in genere sono commercializzati attraverso canali distributivi che trattano l’intera gamma degli elettrodomestici, e in molti casi unicamente tale gamma.
Gli elettrodomestici bianchi, alla cui storia si riferiscono la pagine che seguono, sono a loro volta suddivisi merceologicamente in tre ‘linee’ principali: la ‘linea freddo’, cioè frigoriferi, congelatori e simili; la ‘linea lavaggio’, cioè lavatrici e lavastoviglie, cui si aggiungono prodotti meno diffusi in Italia come asciugatrici e lavatrici-asciugatrici integrate; e la ‘linea cottura’, che comprende cucine a gas ed elettriche, forni, piani di cottura e forni a microonde, la maggiore rivoluzione tecnologica degli anni Ottanta e Novanta in questo campo. Ci sono solide ragioni storiche (se ne tratterà più in là) e produttivo-distributive per assimilare le cucine a gas a questo tipo di elettrodomestici.
Va detto, inoltre, che lo sviluppo storico delle varie linee di ‘bianchi’ nei mercati nazionali segue – soprattutto per i mercati europei, e al netto delle specificità dei diversi contesti – una traiettoria generale comune che vede affermarsi nei consumi di massa prima le cucine, poi i frigoriferi, quindi le lavatrici e, solo in ultimo, le lavastoviglie, che spesso arrivano su un mercato ormai maturo e quando per le altre linee di prodotto si è già passati dalla fase del primo acquisto a quella della sostituzione. Va infine ricordato che per ciascuna linea esiste, accanto al mercato dei prodotti casalinghi, anche un mercato di apparecchi industriali, destinati – solo per fare qualche esempio – ai servizi di lavanderia, alla ristorazione, alla preparazione dei prodotti da forno, o al trasporto, conservazione e distribuzione degli alimenti: di questi si parlerà poco in questa sede, e soltanto in funzione della storia degli apparecchi per uso familiare.
Nella vicenda storica degli elettrodomestici vi è un’influenza reciproca con diversi e rilevanti fattori di contesto, che sono importanti per comprenderne gli sviluppi almeno quanto lo è la traiettoria tecnologica delle singole tipologie di apparecchi. Fra questi si devono almeno menzionare la diffusione capillare della rete elettrica e l’incremento dei consumi energetici, le trasformazioni dei rapporti economico-sociali, l’evoluzione della famiglia e del modo di abitare, l’affermarsi di nuovi stili di vita e di consumo.
Inoltre, l’industria degli elettrodomestici nasce in modo storicamente articolato nelle diverse aree del mondo: le origini in senso assoluto si collocano negli Stati Uniti, mentre solo con ritardo il mercato degli apparecchi elettrici per la casa si sviluppa in Europa, e non nello stesso momento o alla stessa velocità nei diversi contesti nazionali del vecchio continente. A partire dagli anni Settanta del 20° sec., l’industria e il mercato di massa dei ‘bianchi’ si diffondono con ulteriori articolazioni e velocità diverse in tutte le aree del mondo, con l’introduzione di elementi di competizione globale che condizionano anche lo sviluppo delle aziende italiane, che fin dalle origini sono state esposte all’internazionalizzazione del settore. Occorre quindi, per comprendere le vicende dell’industria italiana dei ‘bianchi’, aver presenti alcuni aspetti generali della storia degli elettrodomestici.
La fatica domestica
Solo da un secolo e mezzo l’energia è disponibile e utilizzabile dove serve, soprattutto per merito del gas e dell’elettricità. Per millenni, infatti, le forme di energia che l’ingegno umano era in grado di utilizzare dovevano essere sfruttate dove si trovavano o nelle immediate vicinanze. Averne in abbondanza nelle abitazioni era dunque impossibile, o comunque molto raro. Oggi siamo talmente abituati ad avere l’energia in casa che la sua disponibilità ci sembra ovvia. A un migliore tenore di vita ci si abitua presto e si dimentica come vivevano le generazioni precedenti e quanto sia stato radicale il cambiamento di qualità della vita quotidiana.
Come si svolgeva, nell’Ottocento, quel lavoro domestico che il contesto sociale spesso ancor oggi considera, almeno in Italia, un compito esclusivo delle donne? La cottura dei cibi richiedeva, oltre all’abilità nella preparazione gastronomica, anche capacità da fuochista, soprattutto se vi era bisogno di una fiamma vivace per una certa durata. Inoltre il combustibile, in genere carbone o carbonella, era scomodo da gestire e sporco. Per quanto riguarda la pulizia, dopo ogni pasto si doveva rigovernare, lavando i piatti, le pentole e gli altri strumenti e accessori: un lavoro da svolgere con l’acqua calda per ottenere una buona sgrassatura delle stoviglie, cosa tutt’altro che agevole, benché in genere le cucine a legna o a carbone contenessero una capiente caldaia per poter disporre continuamente di acqua bollente. Ancora più pesante era la pulizia dei pavimenti, che dovevano essere quotidianamente spazzati e lavati, oltre che periodicamente tirati a lucido.
Ma l’incombenza in assoluto più gravosa era probabilmente il bucato, che veniva fatto con cadenza settimanale. Prima dell’introduzione dell’acqua corrente, del gas e dell’energia elettrica, per fare il bucato erano necessari due giorni di lavoro: era infatti necessario preparare il fuoco per far bollire i panni, lavarli, sciacquarli, strizzarli, a volte azzurrarli, e quindi stenderli e stirarli. Le donne americane, che hanno un ruolo di grande rilievo in questa storia, facevano il bucato tradizionalmente di lunedì: la domenica era, infatti, il giorno in cui si cambiavano gli abiti e la biancheria della settimana. I panni sporchi si lavavano il giorno dopo: veniva chiamato blue monday. Quando il bucato era asciutto, in genere di martedì, si procedeva con la stiratura. Per questa operazione si utilizzavano a rotazione almeno tre ferri, che venivano messi a scaldare su una lastra di metallo posta nel camino o su una stufa: più il tessuto da stirare era spesso, più il ferro doveva essere pesante.
Nell’Ottocento gli Stati Uniti sono l’unico Paese in cui le donne godono della parità giuridica. Ma questa, come si sa, non garantisce una vera parità sociale: il 19° sec. è dunque percorso da correnti culturali che mirano a ridefinire il ruolo e le responsabilità della donna e ad affermare la dignità del suo lavoro, fuori e dentro le mura domestiche. Questo percorso, nei cui dettagli non conviene entrare qui, muove da progetti di riforma sociale e ha importanti ricadute sia in termini di stili di vita sia in termini economici (le due cose sono strettamente legate). Tra le promotrici di questo nuovo corso troviamo Catherine Beecher e sua sorella Harriet Beecher Stowe (1811-1896, proprio lei, la scrittrice antischiavista di Uncle Tom’s cabin, 1851), autrici di un importante manuale per le donne americane (The American woman’s home, 1869), che si iscrive nella tradizione anglosassone dei libri di self-help.
Le sorelle Beecher sottolineano, in particolare, il contrasto fra i principi di uguaglianza affermati dal cristianesimo, che sono anche alla base della democrazia americana, e la presenza della servitù domestica nelle case della borghesia statunitense. Esse affermano la necessità di limitare al massimo l’impiego di personale di servizio, evitando comunque che il rapporto assuma i connotati di una nuova forma di ‘schiavitù’ o di ‘feudalesimo’. A questo scopo, suggeriscono di portare fuori dalle mura domestiche le mansioni che possono essere oggetto di un lavoro sostitutivo, di suddividere le incombenze domestiche fra i diversi componenti della famiglia e di mantenere nella gestione della casa un profilo sobrio, anche nelle dimensioni e nella pianta dell’abitazione. Si diffonde così l’idea che si debba salvaguardare la dignità delle donne che lavorano in casa, liberando inoltre il loro tempo per mansioni familiari di maggior rilievo morale.
La particolare etica domestica delineata dalle sorelle Beecher, benché solo parzialmente realizzata, descrive e promuove un sistema di valori adeguato alle tendenze del contesto sociale in cui si colloca. Infatti l’industrializzazione crescente è causa di una rilevante diminuzione nella disponibilità di domestici, mentre le donne non sposate, che nella famiglia tradizionale fungevano spesso da ‘personale non retribuito’, trovano numerose opportunità di impiego nelle città che si sviluppano. È questo contesto a rendere possibile la produzione industriale di congegni capaci di svolgere meccanicamente le operazioni tipiche di molte mansioni domestiche. Si tratta di apparecchi azionati dal lavoro muscolare, nei quali spesso il vantaggio non è tanto la minor fatica quanto la maggior rapidità e il miglior risultato.
Elettricità e vita quotidiana
Ai suoi esordi l’elettricità quotidiana riguarda, come ogni consumo nuovo, gli strati alti della società (cfr. Laszlo, Masulli e Rienzo, in Storia dell’industria elettrica in Italia, 1992-1994). E c’è una dose di esibizionismo sociale nella prima dimora elettrificata (chiamarla casa sarebbe riduttivo) di cui si ha notizia: la residenza di Sir William Armstrong a Cragside, nel Northumberland. Il nobile inglese è un grande imprenditore della meccanica e degli armamenti: è sua la società Armstrong di Newcastle upon Tyne, che ha varie filiali estere, fra cui gli stabilimenti omonimi di Pozzuoli. Non ha dunque difficoltà a dotare la sua residenza, nel 1880, di un impianto autonomo di illuminazione elettrica, alimentato dalle turbine che usano l’acqua di un lago vicino, cui si aggiungono nel tempo altri servizi: dall’ascensore alla cucina, al riscaldamento. Altro celebre pioniere dell’elettrificazione domestica è il francese Gëorgia Knap, antesignano della moderna domotica, che elettrifica la sua residenza nel 1908 e continuerà a sviluppare l’idea fino al suo ultimo modello di ‘casa elettrica’, presentato all’Esposizione universale di Parigi del 1937 (Rienzo, in Storia dell’industria elettrica in Italia, 1992-1994, pp. 510-11).
Scrive Peppino Ortoleva che l’elettrificazione, contrariamente ad altre rivoluzioni tecnologiche, sembra imporsi nell’immagine che la società ha di sé, prima ancora di affermarsi nell’uso pratico:
Siamo di fronte a un peculiare cambiamento di ritmo nel rapporto tra tecnologia e società, che può essere spiegato attribuendo all’elettricità caratteristiche diverse rispetto a tutte le altre tecnologie (è quanto proponeva Marshall McLuhan quando sosteneva che l’elettricità è «informazione allo stato puro»), oppure, in termini più propriamente storici, soffermandoci da un lato sulle peculiarità del processo di penetrazione dell’elettricità e dei suoi usi nella vita delle persone, dall’altro sui diversi giudizi di valore che vennero formulati in quella fase sul processo di elettrificazione (Ortoleva, in La città elettrica, 2003, pp. 21-22).
Per il grande pubblico, la manifestazione più visibile della diffusione dell’elettricità è l’elettrificazione rapida e massiccia dell’illuminazione stradale e del trasporto pubblico. Anche questa trasformazione riguarda in una prima fase solo i quartieri più ricchi, ma presto si estende a quelli del ceto medio. Essa s’inquadra peraltro in un grande processo di evoluzione del tessuto urbano, nel quale gli impieghi dell’energia elettrica assumono valore simbolico: l’elettrificazione urbana è uno degli obiettivi, anche in Italia, del riformismo socialista, sull’esempio di quanto rivendicato dal movimento fabiano in Inghilterra e dalle amministrazioni comunali socialiste di altri Paesi europei. «Critica sociale», la rivista di Filippo Turati, ne parla frequentemente nella rubrica Notiziario municipale. L’elettricità è un argomento importante per il movimento d’opinione che nel 1903 porta al varo della legge per le municipalizzazioni (cfr. Laszlo, Masulli e Ottolino, in Storia dell’industria elettrica in Italia, 1992-1994).
Nel primo decennio del Novecento il consumo domestico di elettricità si diffonde ampiamente nel ceto medio: il canale primario di questa diffusione è l’illuminazione elettrica delle abitazioni private che, superando i problemi creati dalle lampade a petrolio e a gas, assume i connotati positivi della pulizia, della convenienza e della versatilità. Il nuovo sistema cambia la percezione serale dell’ambiente domestico e della città, ed è un fattore di trasformazione sociale. La maggiore intensità della luce elettrica, la sua semplicità d’uso, la sua capacità di illuminazione cambiano gradualmente le scansioni della vita quotidiana tra giorno e notte, rendono vivibili locali privi di luce naturale e, in ultima analisi, allungano la giornata. L’arredo domestico si arricchisce di nuovi oggetti, simboli della ‘modernità’: lampadine, interruttori, prese elettriche, spine. Durante la Prima guerra mondiale, le difficoltà di approvvigionamento del petrolio e la propaganda delle società elettriche contribuiscono in maniera determinante alla definitiva affermazione della lampadina anche in Italia, diffondendo la nozione che la luce elettrica, più comoda e utile rispetto agli altri sistemi di illuminazione, offre una possibilità di utilizzazione più ampia e garantisce la possibilità di avere un’intensità luminosa maggiore e meglio ripartita.
Con l’avanzare delle trasformazioni sociali legate ai processi di industrializzazione, anche i modelli di organizzazione familiare si modificano. Il modello di riferimento passa dalla famiglia allargata legata all’attività agraria e/o al possesso della terra, alla famiglia ‘nucleare’ borghese dei nuovi insediamenti urbani. Negli Stati Uniti questo cambiamento è particolarmente rapido e incisivo, ma anche l’Europa conosce un fenomeno simile, con velocità diverse da Paese a Paese. Il nuovo modello familiare ha precise conseguenze sulla struttura delle abitazioni: gli appartamenti di città sono dotati del bagno, ambiente specializzato per la pulizia personale e i servizi igienici, mentre la cucina, intesa come ambiente in cui si prepara il cibo, viene separata dal soggiorno-sala da pranzo. Non si può più fare a meno dell’elettricità, dell’acqua corrente e del gas.
Scopo essenziale del nuovo stile di vita è il comfort, che negli anni Venti e Trenta viene messo al centro di una vera e propria ‘ideologia architettonica’. Il comfort familiare diviene, per così dire, il prodotto misurabile del lavoro domestico, e per raggiungere lo standard di riferimento del nuovo stile di vita il ricorso alla tecnologia è essenziale. La responsabile del comfort familiare è infatti (come sempre) la donna, che si trova così a essere gravata, se lavora anche fuori casa, di un doppio lavoro: il sogno di riforma sociale delle sorelle Beecher si è trasformato nella taylorizzazione del lavoro domestico, teorizzata da Christine Frederick (The new housekeeping, 1913). In questo quadro, gli elettrodomestici sono un grande aiuto per chi può permetterseli, e un sogno di consumo anche per chi (ancora) non può.
All’origine dei ‘bianchi’
I primi brevetti che prevedono l’uso dell’elettricità per apparecchi domestici arrivano negli anni Novanta dell’Ottocento e riguardano dispositivi che hanno bisogno di essere riscaldati: ferri da stiro, fornelletti, bollitori, tostapane e scaldaacqua. Riscaldare attraverso l’uso di resistenze elettriche è un’applicazione abbastanza semplice, e gli oggetti in questione possono essere venduti a un prezzo contenuto ed essere impiegati nelle case dove è già entrata l’illuminazione elettrica. Il loro uso, aumentando i consumi di energia, è un ottimo affare per le società elettriche, che infatti si danno subito da fare per promuoverlo. Inoltre, molti di questi apparecchi hanno il picco di consumo in ore diverse da quelle del consumo industriale, e sono quindi particolarmente interessanti perché permettono di vendere l’elettricità prodotta in orari che sarebbero altrimenti di scarso ritorno economico. Il successo arride soprattutto ai ferri da stiro, il cui primo modello elettrico è brevettato nel 1891.
All’inizio del nuovo secolo nasce l’idea di applicare motori elettrici a dispositivi meccanici, per uso sia industriale sia domestico. L’applicazione è resa possibile dalla riduzione delle dimensioni di questi motori, grazie ai perfezionamenti apportati nei primi anni del Novecento. I motorini elettrici iniziano a far girare ventilatori e asciugacapelli, e nel 1908 anche il vacuum cleaner ideato da James Murray Spangler, di Canton (Ohio): suo cugino William Henry Hoover rileverà il brevetto e creerà un’azienda di punta del settore (la cui filiale europea è stata acquisita nel 1995 dall’italiana Candy). Proprio negli Stati Uniti, frattanto, si sta passando ad apparecchi più impegnativi: la prima lavatrice elettrica, sviluppata nel 1907 da Alva Fisher, e il primo frigorifero elettrico, prodotto dalla Kelvinator nel 1914. Fra le novità progettuali di questa fase tecnologica, una è particolarmente significativa: i motori elettrici, che all’inizio erano affiancati alle apparecchiature, vengono inseriti al loro interno grazie all’uso di una ‘scocca’ di colore bianco che, come nelle automobili, ‘riveste’ i nuovi elettrodomestici. I ‘bianchi’ nascono così.
Negli Stati Uniti la loro produzione vede impegnata non solo l’industria elettrotecnica (General electric, anche con il marchio Hotpoint, e Westinghouse), ma anche l’industria automobilistica, in particolare per quanto riguarda i frigoriferi: la Kelvinator viene infatti assorbita durante la Prima guerra mondiale dall’American motors, mentre la concorrente Guardian refrigerator si trasforma nel 1918 nel marchio Frigidaire, divisione della General motors; nel 1927 la Norge passa sotto il controllo della casa automobilistica Borg-Warner; nel secondo dopoguerra, poi, la Ford acquisirà la Philco. Frattanto, nel 1911 è stata costituita la Upton machine company, specializzata nella produzione di lavatrici elettriche, che nel 1950 darà origine alla Whirlpool, oggi leader mondiale del settore (nel 2006 ha superato la svedese Electrolux). Hoover, General electric, Kelvinator e Frigidaire stabiliscono delle filiali europee nel periodo tra le due guerre, ma senza particolare successo: solo il ramo europeo della Hoover, grazie alla forte autonomia dalla casa madre, si afferma davvero.
In Europa di elettrodomestici si occupa quasi esclusivamente l’industria elettrotecnica: nel Regno Unito English electric, AEI, Wilkins & Mitchell, Pressed steel; in Germania Bauknecht, Bosch, Siemens e AEG; in Francia Thomson-Houston, e in Svezia Electrolux, che fin da questa fase tenta di espandersi fuori dai confini nazionali. Particolarmente importante è il contributo dato dalla tedesca AEG (Allgemeine Elektricitäts-Gesellschaft) all’estetica degli elettrodomestici, attraverso l’attività progettuale di Peter Behrens, ideatore del concetto di ‘oggetti coordinati’. In questa fase l’Italia partecipa solo marginalmente allo sviluppo del settore: negli anni Venti l’industria elettrotecnica italiana è in gran parte concentrata sugli apparati per l’industria elettrica e sulle forniture militari. I pochi che si occupano di apparecchi per la casa offrono un ventaglio di prodotti che è paragonabile a quello americano di vent’anni prima: ferri da stiro, stufe e scaldabagni, macchine da caffè (Silvestri, in Storia dell’industria elettrica in Italia, 1992-1994, pp. 208-209). Gli elettrodomestici più grandi vengono importati. Solo un’industria automobilistica, la Fiat (Fabbrica Italiana di Automobili Torino), nel 1938 acquista una licenza per l’assemblaggio dei frigoriferi Westinghouse, ed è così la prima azienda italiana a lanciarsi nell’industria dei ‘bianchi’.
Negli Stati Uniti il taylorismo e l’insegnamento dell’economia domestica offrono un’importante sponda culturale all’impiego delle nuove tecnologie per la casa, affiancandosi all’opera di promozione svolta dagli industriali interessati alla produzione e vendita sia degli elettrodomestici sia dell’energia elettrica. Anche in Europa sorgono organizzazioni che hanno lo scopo di promuovere l’uso domestico dell’elettricità collegandolo alle necessità delle casalinghe, come l’inglese Electrical association for women (1924). In Italia è la SIP (Società Idroelettrica Piemontese), seguita dalla Società meridionale di elettricità (SME), a promuovere le prime campagne per la diffusione degli elettrodomestici, prendendo esempio da quanto avviene nei Paesi più industrializzati: crea a questo scopo la SPES (Sviluppo e Propaganda Elettroapplicazioni e Similari), diretta da Umberto Pittaluga che, insieme a Cesare Pedrini (direttore amministrativo dell’Unione esercizi elettrici-UNES), è tra i maggiori esperti della questione.
La Edison, invece, che è la più importante società elettrica italiana, indirizza l’attività promozionale verso un mercato di fascia medio-alta: ne è un chiaro esempio la Casa elettrica che la società sponsorizza in occasione della IV Triennale, tenuta a Monza nel 1930. La realizza il Gruppo 7, costituito dai giovani architetti italiani più innovativi del momento: Luigi Figini, Gino Pollini, Adalberto Libera, Sebastiano Larco, Carlo Enrico Rava, Giuseppe Terragni e Guido Frette (Polin 1982, pp. 52-55). La Casa si presenta come un moderno villino residenziale: in cucina troneggia il frigorifero, immerso nell’illuminazione ‘razionale’, insieme a un tripudio di piccoli elettrodomestici, alla lavabiancheria e alla lavastoviglie; allo stesso modo, in soggiorno domina il mobile che contiene la radio e il grammofono elettrico; l’asciugacapelli e lo scaldabagno contribuiscono invece al comfort della stanza più intima della casa. È improbabile che l’investimento pubblicitario della Edison sia stato ripagato da un incremento dei consumi elettrici; tuttavia, è molto rilevante dal punto di vista culturale, perché offre un modello di stile e di consumo, uno ‘standard da sognare’, anche per famiglie che ancora non possono averlo, ma che forse un giorno potranno permetterselo.
Gli italiani e la ‘casa elettrica’: da sogno a realtà
I risultati delle campagne promozionali della SIP e della SME dimostrano, da un lato, che i consumatori italiani sono disponibili all’acquisto di piccoli elettrodomestici e, dall’altro, che il principale ostacolo alla diffusione degli apparecchi di taglia più grande è il basso livello di reddito di gran parte della popolazione. Non c’è sforzo propagandistico in grado di superare questo ostacolo, benché l’incremento dei consumi domestici di energia elettrica, a scopo sostitutivo dei combustibili fossili, sia uno degli obiettivi della politica autarchica del fascismo. E non è solo il costo di acquisto a limitare il mercato: anche le tariffe elettriche svolgono un ruolo non secondario.
Il più lussuoso degli elettrodomestici è in quel momento il frigorifero, un vero status symbol: in pochi possono permetterselo. Infatti, al di là del trionfalismo con cui vengono esposti, i dati sulla vendita di elettrodomestici ai consumatori italiani (U. Pittaluga, Le applicazioni domestiche, «L’elettrotecnica», 1939, pp. 201-204) dicono a chi sa leggerli che il mercato italiano è ancora terribilmente povero, e fotografano una profonda divaricazione sociale: a fronte di 3.500.000 ferri da stiro (il vero elettrodomestico di massa) e di 1.350.000 piccoli apparecchi (fornelli, caffettiere, ventilatori, asciugacapelli) che chi può affianca al ferro, all’altro capo della scala del lusso stanno appena 65.000 scaldabagni, 65.000 aspirapolvere, 53.000 lucidatrici e 21.000 frigoriferi. I consumi di elettricità confermano questo quadro: all’uso domestico (inclusa l’illuminazione delle case) è infatti destinato poco più del 5% dell’energia prodotta. A metà scala troviamo 112.000 cucine elettriche e 275.000 radiatori ‘per riscaldamento occasionale’: ed è da qui che si ripartirà nel dopoguerra.
Dopo la fine del conflitto, i produttori europei e statunitensi di elettrodomestici assumono un atteggiamento attendista nei confronti del mercato italiano, che ritengono destinato a crescere con molta lentezza. Questo orientamento è in assonanza con la parte più conservatrice della classe dirigente italiana: un pezzo del potere economico e dei suoi referenti politici, infatti, punta su uno sviluppo a ritmi contenuti, che salvaguardi gli assetti sociali tradizionali. Nel 1952 la General motors (divisione Frigidaire), in uno studio sulle potenzialità di sviluppo del mercato degli elettrodomestici in Italia, formula previsioni estremamente caute (Castellano 1965, pp. 22-23), riprese tre anni dopo da un istituto internazionale di analisi economica (Battelle), che esclude lo sviluppo in Italia di un’industria dei frigoriferi forte e autonoma, e di un mercato del settore sufficientemente ampio e interessante (Petrillo, in Storia dell’industria elettrica in Italia, 1992-1994, p. 475). Si tratta di previsioni che scontano significative dosi di pregiudizio culturale e politico; esse porteranno chi le formula a perdere una grossa opportunità di mercato, favorendo la crescita delle imprese italiane.
Il Paese è infatti attraversato da una voglia di cambiamento senza precedenti, dopo il totale ricambio di classe dirigente, la nascita della Repubblica e l’entrata in vigore della nuova carta costituzionale. Anche il contesto internazionale, segnato dalla guerra fredda, funge da incentivo alla penetrazione dei modelli di consumo provenienti da oltreoceano: la sfida al conservatorismo sociale è infatti facilitata dall’esigenza, sostenuta con particolare forza dall’amministrazione degli Stati Uniti, di contrastare la diffusione del movimento comunista attraverso un rapido sviluppo economico accompagnato dalla propaganda, a ogni livello, del modello (e del sogno) americano.
Una prospettiva condivisa da quella parte della nuova classe dirigente che si ispira al cattolicesimo sociale (manager pubblici come Pasquale Saraceno ed Enrico Mattei, politici come Ezio Vanoni, industriali come Adriano Olivetti) e dai tecnocrati che si sono formati nell’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) di Alberto Beneduce (i banchieri Donato Menichella e Raffaele Mattioli, e gli ‘elettrici’ Giuseppe Cenzato, Arnaldo Maria Angelini, Girolamo Ippolito), oltre che da personalità del mondo scientifico come Francesco Giordani, Domenico Marotta, e i più giovani Edoardo Amaldi e Felice Ippolito. Una posizione condivisa anche da una parte del mondo industriale settentrionale, dove c’è chi punta – come la Fiat – su un accelerato processo di crescita, che favorisca lo sviluppo della motorizzazione di massa.
Nel decennio 1951-60 i consumi privati non alimentari vedono un tasso di crescita del 66%: questi dati danno ragione alle forze politiche e imprenditoriali che hanno puntato su uno sviluppo più dinamico. Completata la fase più difficile della ricostruzione, lo sviluppo economico italiano si manifesta nel quinquennio 1948-53 con la diffusione delle macchine da cucire a pedale (quelle elettriche costano troppo) e dei motoscooter (nel 1948 ne circolano 161.000, nel 1954 si arriva a 1.243.000). Ancora più impressionante lo sviluppo dei fornelli a gas liquido. Introdotto nel 1938 dalla società Liquigas di Milano, che lo distribuisce nelle regioni settentrionali, nel dopoguerra il gas in bombole è prodotto anche dall’Agipgas e poi dalla Pibigas, che lo distribuiscono su tutto il territorio nazionale: il consumo balza dalle 14.000 tonnellate del 1947 alle 41.000 del 1950, e arriva a 400.000 nel 1956. Le famiglie utenti sono 220.000 nel 1949, ma due anni dopo sono 1.260.000 e nel 1954 arriveranno a 4.500.000.
La fortuna del gas liquido è legata alla sostituzione delle cucine economiche e dei fornelli elettrici, e alla diffusione delle stufe a gas. Fino ai primi anni del secondo dopoguerra, infatti, le cucine di casa erano rappresentate nei grandi centri da fornelli a gas di città oppure elettrici (in Italia assai meno diffusi che nel resto d’Europa per il costo della bolletta); le cucine economiche (a carbone o a legna) venivano invece impiegate in prevalenza nei piccoli e medi centri urbani e nelle campagne. Erano spesso le stesse aziende distributrici di gas liquido a promuovere e facilitare l’acquisto delle cucine adatte a utilizzare il loro prodotto. Secondo calcoli empirici, nel periodo 1949-54 il mercato assorbe oltre 4.000.000 di apparecchi. Gran parte di essi sono prodotti da piccole aziende artigianali o semiindustriali, e segnalano l’esistenza sul territorio nazionale, nel corso di quegli anni, di un gran numero di piccoli fabbricanti.
Si tratta di imprenditori che hanno imparato a conoscere i loro clienti potenziali e sanno di dover tenere conto delle loro esigenze, non solo in termini di prezzo, ma anche in termini di dimensione delle abitazioni e di abitudini. Dopo una prima inevitabile fase imitativa dei prodotti esteri, i fabbricanti italiani passano alla progettazione di apparecchi di impostazione originale: introducono nei prodotti dei quali si occupano (tecnologicamente ‘maturi’) innovazioni di natura adattativa, utilizzando strategie di riduzione dei costi e caratterizzando il design in modo da rendere possibile una politica di ‘marchio’, almeno sul mercato interno. Carlo Castellano, il primo studioso (e acuto interprete) di questa vicenda, vede in tale dinamica il principale fattore di rottura della stasi tecnologica, che aveva fino ad allora caratterizzato l’industria italiana degli elettrodomestici, e l’innesco del suo veloce e imprevisto sviluppo (Castellano 1965, p. 21).
Dalla cucina al frigorifero
Anche se non sono alimentate dall’elettricità, le cucine a gas vengono considerate il precursore storico degli elettrodomestici ‘bianchi’, per l’esistenza di significative convergenze tecnologiche e distributive. E così le ditte che hanno acquisito esperienza con i fornelli a gas cercano di diversificare e ampliare l’attività proprio verso questo settore. Infatti, mentre la capacità di assorbimento del mercato si avvia alla saturazione, alcune imprese produttrici di cucine decidono, tra il 1953 e il 1955, di sfruttare i vantaggi conseguiti su quel prodotto, che manifesta un sensibile ridimensionamento della domanda, puntando su un altro apparecchio da cucina: il frigorifero (Castellano 1965, p. 21).
Il frigorifero consente di migliorare e ampliare le scelte alimentari delle famiglie ed è uno status symbol: con la sua forma panciuta di modello americano, all’inizio degli anni Quaranta troneggia nelle cucine di 21.000 famiglie italiane, le più agiate; nell’80% dei casi ha il marchio Fiat, per il resto è quasi tutto marchiato CGE (Compagnia Generale di Elettricità), la controllata italiana della General electric. Anche con la diffusione di un maggior benessere, all’inizio degli anni Cinquanta non possono ancora permetterselo in molti.
La prima azienda italiana a introdurre elementi innovativi nel processo di produzione dei frigoriferi è la Siltal di Abbiategrasso, che entra nel campo dei frigoriferi nel 1952. Fondata nel 1948 da Romeo Scarioni, un operaio specializzato capace di risolvere in modo geniale vari problemi produttivi, è una piccola azienda che effettua lavorazioni meccaniche leggere per conto terzi. Alla Siltal si deve, in particolare, la tecnica di piegatura ‘tangenziale’ delle casse frigorifere, grazie alla quale si realizza un frigorifero rettangolare, più adatto alle case dei consumatori italiani ed europei, che diverrà un tratto caratteristico del prodotto italiano del ‘freddo’. L’azienda diversificherà in seguito la propria produzione su altri elettrodomestici, mantenendo comunque la vocazione iniziale per ‘conto terzi’, vale a dire la realizzazione di apparecchi commercializzati poi con il marchio dell’industria committente. Anche in questo la Siltal è anticipatrice di quella che diverrà alcuni anni dopo una strategia diffusa tra i produttori italiani di elettrodomestici.
Tra le aziende che si mettono sulla traiettoria che dai fornelli porta al frigorifero, quella di maggior successo è comunque la Ignis di Comerio, della famiglia Borghi, fondata nel 1943. Dopo un promettente inizio con i fornelli elettrici, tra il 1944 e il 1950 la sua produzione si allarga alle cucine elettriche con forno, e passa dall’elettricità al gas liquido (donde la ragione sociale, che riprende la parola latina per fuoco). La Ignis stipula un contratto in esclusiva per la vendita dei propri prodotti attraverso i concessionari provinciali e regionali della Pibigas, la cui attività di distribuzione si va diffondendo su tutto il territorio nazionale, e beneficia così di un effetto di ‘traino’. Guidata da Giovanni Borghi (1910-1975), nel 1951 Ignis inizia a produrre scaldabagni, poi frigoriferi ad assorbimento e, infine, frigoriferi a compressore. Tra il 1955 e il 1961 il modello di frigorifero rettangolare messo a punto dalla Ignis diviene lo standard del frigorifero italiano: basso prezzo, stile e disegno gradevole. Il grande successo del prodotto porta l’azienda ad avviare un forte processo di integrazione verticale e di costante aggiornamento tecnologico, che ne farà per un lungo periodo la guida del settore (Balloni 1978, p. 144).
Nel 1953-54 inizia la produzione di frigoriferi anche la Zanussi, fondata a Pordenone nel 1916 da Antonio Zanussi. In origine è una piccola officina artigianale che produce stufe a legna. Alla morte del fondatore subentrano i figli Guido e Lino (1920-1968), i quali nel 1948 ricevono dalla Liquigas e dall’Agipgas alcune commesse di fornelli a gas liquido, da associare in vendita o in comodato alla distribuzione delle bombole. Con l’esaurimento della fase espansiva delle cucine a gas liquido, i due fratelli ampliano il loro campo di attività ai frigoriferi, inizialmente su licenza della Necchi. Tra il 1954 e il 1958 mettono a punto un loro prodotto originale, caratterizzato in termini di stile, colore e prezzo, e compiono il passaggio alla produzione su scala industriale, costruendo una strategia di vendita basata sulla reputazione dei marchi Rex e Naonis, di loro proprietà.
L’ingresso di questi nuovi imprenditori ha un impatto sulle strategie industriali della Fiat, l’unico grande gruppo italiano presente nel settore all’indomani della guerra. La Fiat vende frigoriferi assemblati nei propri stabilimenti su licenza Westinghouse, ripartendo la fabbricazione dei componenti all’indotto, in ciò riprendendo un modello già adottato in campo automobilistico: tra i subfornitori vi è la controllata Aspera Frigo, che dal 1953 produce compressori, cioè l’elemento tecnologico fondamentale, su licenza della statunitense Tecumseh. La produzione di questo componente è un prerequisito importante per l’espansione del settore che si verifica tra il 1953 e il 1958, alimentando un mercato ampio e senza concorrenti; solo nel 1960, infatti, la Necchi inizierà a fabbricare compressori su licenza Kelvinator. Il gruppo torinese resta quindi una presenza centrale, attraverso Aspera, nella produzione di frigoriferi, anche se il marchio Fiat, che perde ogni anno quote di mercato, uscirà dal settore cedendo macchinari e licenze alla Domowatt di Leinì, di proprietà della famiglia Rivoia. Quest’ultima passerà, nel 1964, sotto il controllo della Singer.
L’uscita del marchio Fiat dal mercato dei frigoriferi, avviata gradualmente dal 1956, coincide con lo sviluppo di un’altra azienda piemontese, la Indesit. Fondata nel 1953 a Torino da Armando Campioni, Adelchi Candellero e Filippo Gatta, con il nome Spirea, l’azienda cambia più volte denominazione e assetto, fino a divenire Indes (Industria Elettrodomestici Spa) e nel 1961 Indesit, sotto il controllo delle famiglie torinesi Campioni e Candellero, con sede a Rivalta.
L’organizzazione produttiva della Indesit mostra subito una professionalità manageriale diversa da quella di un imprenditore di prima generazione, e inoltre il suo avvio è preceduto da una visita che Campioni effettua agli stabilimenti della Ford accompagnato da Vittorio Valletta. Questi elementi hanno spinto alcuni autori (Castellano 1965; Balloni 1978; Paba 1991) a ipotizzare che dietro la ragione sociale Indesit vi fosse la stessa Fiat, ipotesi che però non è avvalorata da alcun riscontro documentario. È invece possibile che Valletta abbia avuto un interesse personale per questo settore: in effetti, la Fiat esce dagli elettrodomestici nello stesso anno in cui Valletta lascia a Gianni Agnelli l’incarico di amministratore delegato. Indesit, che si colloca da subito tra le aziende di punta dei ‘bianchi’ italiani, si indirizza a un segmento di mercato medio e offre una gamma produttiva completa.
Lavatrici e lavastoviglie: la scoperta della comodità
L’ingresso dei frigoriferi nelle famiglie italiane non è che un primo passo, cui segue quello della lavatrice che segna una nuova fase di sviluppo del mercato interno. Gli imprenditori che hanno iniziato la produzione di elettrodomestici negli anni Cinquanta non sono sociologi, ma hanno compreso (magari qualcuno in modo solo istintivo, confuso e incerto) le vaste possibilità di espansione derivanti dalle modificazioni in corso nella società italiana. Realizzando prodotti adatti al modesto potere d’acquisto dei loro clienti, promuovono attivamente la formazione di un mercato di massa. È un mercato che vive anche delle profonde disparità sociali ancora evidenziate dalle numerose indagini del periodo: infatti, l’iniziale divaricazione sociale e culturale tra gli utenti innesca una tendenza all’acquisizione di nuovi prodotti per colmare lacune e distanze. Il fenomeno può essere misurato anche con l’aumento della quota dei consumi elettrici destinati all’uso domestico, che passa dal 5% del 1938 al 17% del 1951, ma che, con gli anni Cinquanta, conosce un incremento continuo, tanto più significativo in quanto anche la dimensione complessiva della produzione elettrica si espande considerevolmente.
La crescita dell’occupazione femminile nell’industria e nei servizi, un fattore di sviluppo di cui oggi troppo spesso sfugge la rilevanza, comporta un aumento del reddito familiare complessivo e agevola l’acquisto di beni durevoli. A questo si accompagna una minore disponibilità di lavoratori domestici, mentre aumenta la richiesta di servizi a ore che, offrendo un aiuto più ridotto a una platea di utenti decisamente più vasta, divengono un ulteriore canale di occupazione femminile. Con l’acquisto di elettrodomestici, inoltre, la collaboratrice familiare a ore e la padrona di casa, casalinga o occupata, esprimono non solo il desiderio di limitare la fatica fisica, ma anche di ridurre la dimensione ‘servile’ del lavoro domestico, dando corpo a un’esigenza di cambiamento nei rapporti familiari e nella società.
Le prime aziende che in Italia producono lavatrici sono di fisionomia poco più che artigianale: la Candy e la Riber, cui segue poco dopo la Castor. La Candy viene fondata nel 1945 da Eden Fumagalli (1891-1971), che gestisce una piccola officina meccanica a Monza, nella quale, fin dall’inizio dell’attività, si dedica a produrre apparecchi di lavaggio; lo sviluppo del prodotto è difficoltoso, dato che sul mercato italiano non si trovano all’inizio nemmeno i detersivi e si deve impiegare il sapone grattugiato. La situazione cambia con la creazione nel 1957 della Bi-Matic, il primo modello Candy semiautomatico. Il suo successo permette a Fumagalli di procedere anche alla razionalizzazione del processo produttivo e quindi al salto verso un’organizzazione industriale.
Negli stessi anni nasce la Riber, di Riccardo Bertolino, la cui attività inizia quasi per gioco: dopo aver regalato alla moglie una lavatrice inglese, ne studia il funzionamento e si convince di poter realizzare un apparecchio migliore. Le prime vendite avvengono con il passaparola, coinvolgendo conoscenti e vicini di casa. Ne nasce una piccola azienda che segue la traiettoria di sviluppo del prodotto e già nel 1954 arriva a realizzare un modello semiautomatico. La Riber si specializza fortemente nel settore del lavaggio e nella produzione per conto terzi, con un percorso differente da quello di altre aziende di elettrodomestici.
Nella linea del lavaggio si specializza anche la Castor, fondata a Moncalieri nel 1955 da Francesco Casarini, un autoriparatore che avvia il proprio percorso imprenditoriale partecipando con successo all’introduzione delle lavatrici in Italia. Nel frattempo stanno orientandosi verso la lavatrice anche le aziende italiane che hanno già fatto il salto di scala: la Zanussi vi entra nel 1958 con una licenza Westinghouse, per arrivare a una lavatrice di progettazione propria nel 1962. Nel 1959 viene fabbricata la prima lavatrice della San Giorgio elettrodomestici (gruppo IRI-Finmeccanica): l’azienda si era dapprima indirizzata alla produzione di aspirapolveri e lucidatrici, per poi passare agli elettrodomestici ‘bianchi’. Nel 1962 comincia a produrre lavatrici anche la Ignis.
L’espansione del settore dei ‘bianchi’ avviene in una situazione di saturazione del mercato italiano, con una domanda di sostituzione degli apparecchi che hanno esaurito il loro ciclo di vita. Si determinano così dinamiche concorrenziali nuove che stimolano la creazione di nuovi modelli: la novità più importante è la lavatrice automatica, cioè un apparecchio che va oltre la lavatrice a doppia vasca e carica verticale, prevalente fino a quel momento. I primi modelli italiani, a vasca unica, scocca rettangolare e carica frontale, sono sviluppati dalla Candy fra il 1958 (Automatic, con l’introduzione del timer) e il 1961 (Superautomatic, che affianca al timer le vaschette di detersivo separate per prelavaggio, lavaggio e additivi di risciacquo).
Ma la grande new entry degli anni Sessanta è la lavastoviglie. La tecnica di lavaggio delle lavastoviglie moderne era stata sviluppata negli Stati Uniti a partire dagli anni Venti, con l’adozione del serbatoio di acqua calda e della pompa che proiettava l’acqua sul vasellame. Come la lavatrice dell’epoca, anche la lavastoviglie si caricava dall’alto. Il primo modello a carica frontale è della Hotpoint, nel 1936. Entrato a fine anni Trenta nell’offerta dei principali fabbricanti americani e inglesi, il nuovo apparecchio arriverà in Italia con molto ritardo. Ne aveva parlato già Carlo Emilio Gadda nella raccolta di racconti L’Adalgisa (1944), narrando del desiderio che un esemplare americano esposto alla Fiera campionaria aveva acceso in donna Elsa, una ricca padrona di casa milanese.
Quindici anni dopo, in realtà, le più modeste discendenti di donna Elsa potrebbero permettersi la lavastoviglie, ma hanno dubbi e resistenze. Gravano su questo apparecchio il timore per i danni agli oggetti di cucina e di tavola e il dubbio sull’efficacia del lavaggio automatico. Ne sono in parte responsabili gli stessi fabbricanti, che all’inizio hanno tentato di vendere prodotti di scarsa affidabilità, danneggiando l’immagine della lavastoviglie sul mercato, non solo italiano, ma europeo. Solo un ulteriore consolidamento del benessere riporterà i consumatori a rivolgersi a un apparecchio che li liberi dal lavaggio di pentole, padelle e piatti. La tecnologia per il loro lavaggio automatico è in effetti più complessa, e quindi più difficile è la messa a punto di una macchina adeguata. Zanussi ne avvia la produzione tra il 1962 e il 1965, subito seguita da Indesit, Ignis e Castor; nel 1966 arriva la lavastoviglie Candy, e nel 1967 i modelli San Giorgio e Riber. Il maggior successo arride alla Castor, che nel 1968 raggiunge una quota del 10% sul mercato di questo prodotto.
La ‘fabbrica europea’ degli elettrodomestici
Le imprese americane, come si è detto, avviano il mercato degli elettrodomestici in Europa: hanno l’esperienza, il prestigio e i mezzi finanziari per dominarlo, ma l’insensibilità verso le condizioni di consumo e utilizzazione dei loro prodotti in ambito europeo impedisce loro di affermarsi. Fino al 1955, comunque, il settore resta privo di identità, sia in termini di produzione sia in termini di distribuzione. La specializzazione delle singole imprese nella produzione di cucine, frigoriferi o lavabiancheria e la distribuzione attraverso negozi di vocazione incerta che vendono un po’ di tutto, delineano – in tutti i contesti nazionali – una situazione vagamente anarchica, in cui le singole aziende sono lontane dall’idea di una gamma di prodotti commercializzata sotto uno stesso marchio e attraverso gli stessi canali.
Le aziende europee, tuttavia, pur nelle loro dimensioni limitate, sono capaci di assimilare know-how e di cogliere le esigenze dei loro mercati. Nella seconda metà degli anni Cinquanta esse sviluppano la consapevolezza della comune vocazione di alcuni prodotti, e in modo lento e non univoco cominciano ad abbandonare la specializzazione sul singolo prodotto o linea. La caduta delle barriere doganali, dovuta alla nascita del mercato comune, favorisce negli anni Sessanta un rapido sviluppo a livello europeo, con la convergenza dei prodotti in un’unica gamma che definisce l’identità del settore, l’assunzione di precisi ruoli da parte delle varie produzioni nazionali e una rapida internazionalizzazione, per cui, a partire dalla metà del decennio, la concorrenza diviene una dinamica di area europea e non più dei singoli mercati nazionali (Pepe 1988, pp. 39-42).
Si rafforza in questo periodo la brand-loyalty, cioè la fidelizzazione del consumatore verso uno specifico marchio, del quale ha sperimentato la qualità e l’assistenza. L’altra faccia del fenomeno è la fabbricazione per conto di aziende che vendono con il proprio marchio un prodotto fatto da altri, chiamata in gergo terzismo. Il ‘terzismo’ può anche essere di natura solo commerciale, come nel caso di prodotti destinati ai clienti di una specifica catena distributiva, o di grandi organizzazioni di vendita per corrispondenza (ad es., la tedesca Quelle). Tutte le imprese italiane, anche le maggiori, operano in terzismo in qualche fase del loro sviluppo. Alcune di esse vi si specializzano, divenendo ‘terzisti’ di livello europeo: è il caso della IAR-Siltal, sorta con l’acquisizione della Siltal da parte della IAR, un’azienda nata negli anni Sessanta e guidata da Teresio Lupano.
Inizialmente l’integrazione dei mercati nazionali si presenta come una dinamica soprattutto franco-tedesca; ma già nella prima metà degli anni Sessanta le posizioni dei maggiori produttori europei sono minacciate dagli italiani che, forti del vivace sviluppo della domanda interna e della maturità tecnologica raggiunta, in particolare sui frigoriferi, si presentano in Europa con prodotti caratterizzati da un buon rapporto qualità/prezzo, proprio nel momento in cui la domanda di elettrodomestici si allarga a fasce ampie di consumatori sensibili a questo elemento. Inoltre, alcune fra le maggiori aziende europee (come Philips, Electrolux e AEG) in quegli anni preferiscono completare la loro gamma acquistando in terzismo alcune fabbricazioni dagli italiani. La produzione italiana di ‘bianchi’ cresce con tassi di sviluppo fortissimi, sopravanzando anche i tedeschi e divenendo leader in Europa: il tetto di questa fase di espansione verrà raggiunto nel 1977, con 11.500.000 apparecchi prodotti, destinati per il 60% all’esportazione.
La leadership italiana si afferma innanzitutto, e in modo indiscutibile, nel campo dei frigoriferi. Si tratta di un successo di cui è protagonista la Ignis: in questo periodo, infatti, l’azienda di Comerio introduce nella sua gamma il congelatore domestico, e per prima in Europa impone sul mercato il frigorifero rettangolare, con l’isolamento in poliuretano al posto della lana di vetro. Lo sbocco della produzione Ignis è soprattutto l’esportazione. Infatti le aziende concorrenti svilupperanno un prodotto con queste caratteristiche solo più tardi. Ignis potenzia inoltre i propri impianti realizzando importanti innovazioni nell’organizzazione produttiva, e diventando il primo produttore italiano di frigoriferi, con 750.000 pezzi l’anno: si apre così la strada di una completa integrazione verticale, anche per quanto riguarda i compressori, che l’azienda fabbrica in proprio, su licenza della Stengel.
Nel 1958 entra nel settore degli elettrodomestici anche la Merloni di Fabriano. Il nucleo iniziale è la fabbrica di strumenti per pesare avviata nel 1930 da Aristide Merloni (1897-1970), che vent’anni dopo detiene il 40% del mercato italiano in un settore che però non presenta le prospettive di crescita desiderate dal titolare, divenuto nel 1943 presidente della locale Cassa di risparmio e nel 1951 sindaco di Fabriano (in seguito sarà eletto senatore). L’occasione per diversificare gli si offre quando il conterraneo e amico Mattei gli suggerisce un’iniziativa che nel 1954 lo porterà a produrre bombole per il gas liquido. Nel 1957 entrano in azienda i figli Francesco e Vittorio. Di lì a poco l’ingresso nei ‘bianchi’, dapprima con gli scaldabagni elettrici, quindi con la produzione di cucine.
Nel corso degli anni Sessanta Merloni sviluppa la propria gamma di elettrodomestici, distribuiti con il marchio Ariston, attraverso accordi con aziende già dotate di impianti e know-how specifici: avviene così per i frigoriferi, commissionati alla SIGEA di Genova, e poi internalizzati acquisendo il controllo della ALIA di Milano; per le lavastoviglie, prodotte su licenza Kenwood; per le lavatrici, commissionate alla San Giorgio; per i congelatori, per i quali rileva dalla GEPI (Società per le GEstioni e Partecipazioni Industriali, la holding pubblica che aveva il compito di ristrutturare e rilanciare le aziende industriali in crisi) il controllo della Italcold. Successivamente, una volta sviluppato il know-how necessario, l’azienda integra queste fabbricazioni all’interno della propria organizzazione produttiva. Con la Merloni si completa il panorama delle aziende che rappresentano il cuore dell’industria italiana dei ‘bianchi’, che un passo dopo l’altro è diventata la prima d’Europa.
Dall’Europa al mercato globale
La vocazione esportatrice delle aziende italiane è soprattutto il risultato di una situazione favorevole creatasi negli anni Sessanta e che, all’inizio del decennio successivo, mostra un certo affanno per ragioni legate in parte all’evoluzione del mercato europeo e in parte alla politica economica italiana. In primo luogo, sul fronte degli elettrodomestici ‘bruni’ (in cui i maggiori produttori di ‘bianchi’ sono allora presenti) si verifica una brusca frenata, per la scelta parlamentare di bloccare l’introduzione della televisione a colori, per la quale l’Italia è pronta – primo fra i Paesi europei – già nella prima metà degli anni Sessanta. Il nuovo salto tecnologico, presentato come una spesa voluttuaria ed eccessiva, viene fermato adducendo ragioni di rigore economico. In realtà lo stop è imposto perché l’incentivazione a un nuovo cambio di apparecchiature televisive avrebbe fortemente condizionato lo sviluppo del mercato pubblicitario da un lato, e ridotto, in un momento di stagnazione del reddito familiare disponibile, la propensione all’acquisto della seconda macchina.
In pratica, con una sorta di ‘protezionismo interno’, si preferisce comprimere e ritardare un settore che è stato fra i motori del miracolo economico, piuttosto che incentivare la competizione e lo sviluppo in settori, come quello dell’auto, che stanno rivelandosi meno dinamici. Convergono su questa linea: un certo moralismo che identifica il dinamismo sociale degli anni Sessanta con la ‘società dei consumi’, la difesa corporativa del pezzo più forte della compagine confindustriale e la fine della capacità propulsiva dell’intervento statale. Nell’indagine conoscitiva parlamentare sull’industria degli elettrodomestici (Camera dei Deputati, Situazione dell’industria italiana degli elettrodomestici, documento nr. 13, 1971), le principali aziende italiane segnalano le difficoltà che questo causa all’industria elettronica italiana e i danni potenziali di lungo periodo. Si è infatti in piena rivoluzione tecnologica, una rivoluzione che, passando attraverso i circuiti integrati, va verso la nascita dei microprocessori, i quali negli anni Ottanta porteranno l’elettronica all’interno di tutti i congegni e gli apparecchi, inclusi gli elettrodomestici ‘bianchi’. Il rinvio nell’introduzione della televisione a colori si accompagna, poi, al clima di ‘austerità’ che dal 1973 sostituisce nelle abitudini degli italiani il dinamismo degli anni Sessanta. Non è solo la crisi petrolifera, ma anche l’atmosfera politica di quelli che passeranno alla storia come gli ‘anni di piombo’. Le domeniche a piedi per risparmiare benzina e l’esortazione al risparmio energetico determinano un cambiamento, dando il senso di una crisi che incombe e minacciando uno stile di vita appena conquistato e non ancora consolidato.
Su un settore in cui la domanda è ormai determinata dalla sostituzione degli apparecchi, si abbatte la crisi economica peggiore dal 1945 in poi, con la recessione del 1975 e l’inflazione a due cifre che provocano una fortissima contrazione della domanda interna. A livello europeo, inoltre, pesa sulle aziende italiane il posizionamento nella fascia medio-bassa del mercato, che risente maggiormente della congiuntura economica negativa. Esse sono inoltre penalizzate, in un mercato basato in gran parte sulla sostituzione degli apparecchi esistenti, dalla scelta terzista che non permette di puntare sulla reputazione dei marchi. Per di più, nel corso degli anni Settanta si chiude il ciclo dell’imprenditorialità fondatrice dei Borghi (Ignis), degli Zanussi, dei Fumagalli (Candy), dei Bertolino (Riber), degli Scarioni (Siltal), dei Casarini (Castor) e dei Merloni, e le maggiori aziende si trovano a dover affrontare contemporaneamente le tensioni del passaggio generazionale e la riorganizzazione delle attività necessaria a mantenersi sulla frontiera della produzione (Pepe 1988, pp. 81-89; Balloni, Cucculelli, Iacobucci 1999, pp. 93-94). In questo difficile contesto si verifica un inevitabile processo di concentrazione, nel corso del quale il sistema perderà alcune componenti importanti, acquisite dai principali concorrenti esteri.
La Ignis, in difficoltà, si allea con la Philips, costituendo la IRE (Industrie Riunite Elettrodomestici), che nel 1972 passa però totalmente sotto il controllo della multinazionale olandese, per la quale Ignis diviene il marchio specializzato della linea freddo. È interessante notare che la struttura produttiva, di notevole qualità, rimane in Italia e continua a essere oggetto di valorizzazione e di investimento da parte della nuova proprietà.
L’altra acquisizione estera riguarda la Zanussi, che è il più grande gruppo italiano del settore e uno dei maggiori a livello europeo. La morte improvvisa di Lino Zanussi nel 1968 priva l’impresa di un capo carismatico, dando inizio a un lungo periodo di incertezza, in cui l’azienda da un lato acquisisce marchi prestigiosi e di notevole specializzazione, come Becchi (stufe), Stice (frigoriferi), Castor (lavaggio), Zoppas e Triplex (cucine), e Sole (componenti elettromeccanici per elettrodomestici), ma dall’altro non riesce a trovare una credibile strategia di crescita. Nel 1984 la Zanussi è assorbita dalla svedese Electrolux, che ne utilizza i marchi e la rete continentale di vendita e assistenza, ma mantiene in Italia il centro delle attività di marketing e di ricerca e sviluppo, oltre agli stabilimenti di produzione già impiantati.
Queste scelte di Philips ed Electrolux confermano l’esistenza di un vantaggio competitivo dell’Italia in questo settore, legato a una serie di fattori infrastrutturali (Balloni, Cucculelli, Iacobucci 1999, pp. 93-128), che spinge gli acquirenti a non mutare la localizzazione non solo delle unità di produzione, ma anche di alcune attività nevralgiche, come il marketing e la ricerca e sviluppo. E infatti, dalla seconda metà degli anni Ottanta, proprio a partire da questo vantaggio multifattoriale, l’Italia non solo manterrà al proprio interno la gestione degli ulteriori processi di concentrazione, ma vedrà alcuni grandi gruppi italiani acquisire il controllo di altre aziende a livello europeo e globale (Balloni, Cucculelli, Iacobucci 1999, pp. 74-91).
La Indesit, infatti, dopo un lunghissimo periodo di crisi troverà un compratore italiano: è la Merloni elettrodomestici di Vittorio Merloni, uno dei tre gruppi nati dalla separazione dei rami di attività attuata dalla famiglia tra il 1970 e il 1978, dopo la morte di Aristide. L’azienda di Fabriano, uscita rafforzata dagli anni della crisi, effettua importanti acquisizioni divenendo la maggiore impresa italiana del settore: Philco (1986) Indesit (1987) e la francese Scholtes (1989).
Un’altra impresa che riesce a crescere in questa fase è la Candy, che nel 1970 completa la sua gamma di elettrodomestici attraverso l’acquisto di un’unità produttiva della Kelvinator, per la linea del freddo, e della Sovrana, nel settore delle cucine. Negli anni Ottanta si espanderà ulteriormente acquisendo la Zerowatt e la Gasfire e, in seguito, assumerà dimensione multinazionale acquisendo la francese Rosières e, nel 1995, la Hoover Europa: oggi opera prevalentemente a livello globale come Candy Hoover.
Nel corso degli anni Settanta si afferma anche la SMEG (Smalterie Metallurgiche Emiliane Guastalla), fondata nel 1947 da Vittorio Bertazzoni: specializzata nel settore delle cucine, l’azienda inizia a diversificare l’attività negli anni Sessanta, arrivando a completare la propria gamma nel 1970 con la prima lavastoviglie italiana con interno in acciaio inossidabile. A partire dal 1974 l’impresa si specializza negli elettrodomestici da incasso destinati alla fascia medio-alta del mercato. Nel 1982 l’azienda supera un periodo di crisi grazie all’alleanza con Merloni, che acquisisce una partecipazione di minoranza, riacquistata dai Bertazzoni nel 1989-90.
Interessante in questo contesto anche la vicenda della OCEAN (Officina Costruzioni Elettriche Angelo Nocivelli), sorta da un’impresa artigianale fondata da Angelo Nocivelli per produrre stabilizzatori di tensione per televisori. I figli Luigi e Gianfranco ne assumono la guida nel 1955, e nel 1957 acquistano dalla BASF (Badische Anilin- und Soda-Fabrik) una licenza per produrre polistirolo espanso, del quale intuiscono le potenzialità. Quando nel 1958 cade il mercato degli stabilizzatori, l’azienda diversifica rivolgendosi a quello dei contenitori industriali per gelati, e negli anni Sessanta si orienta verso i congelatori, producendo soprattutto per conto terzi. Negli anni Settanta, infine, una nuova strategia anticiclica porta la OCEAN a completare la sua gamma di ‘bianchi’ e a entrare nel mercato del riscaldamento e della climatizzazione. Seguono anni di forte espansione. I due fratelli creano la El.Fi. (ELettro FInanziaria) per operare a livello internazionale. Nel 1984 rilevano il controllo della San Giorgio, nel 1985 incorporano la Zanussi climatizzazione e la Samet, dalla quale acquisiscono il settore cucine. L’azienda si internazionalizza, nel 1988, con l’acquisizione dei marchi Argo e Chaffoteaux & Maury, cui seguono Brandt e Moulinex (marchi leader nel mercato francese) e l’austriaco Elektra Bregenz. La El.Fi./Brandt diventa un gruppo paneuropeo con stabilimenti in Italia, Francia, Germania e Austria. Un passo di grande rilievo per il futuro dell’azienda è rappresentato soprattutto dall’ingresso nella refrigerazione commerciale. Infatti, dopo una complessa vicenda che vede anche il fallimento della El.Fi., il gruppo esce dal mercato degli elettrodomestici, ma la tradizione imprenditoriale dei Nocivelli continua nel gruppo Epta, leader nella refrigerazione commerciale.
Merloni elettrodomestici, Electrolux Zanussi e Whirlpool, entrata nel mercato italiano dopo l’acquisizione della Philips/IRE, sono i tre protagonisti dell’ulteriore fase di grande espansione dei ‘bianchi’ italiani negli anni Novanta, alla testa di un importante drappello di aziende medio-grandi, alcune delle quali anch’esse internazionalizzate. Si arriva così al primo decennio del 21° sec.: Merloni elettrodomestici cambia nome nel 2005, assumendo quello di Indesit company; Electrolux, che fino a metà decennio è il maggiore gruppo mondiale nel campo degli elettrodomestici, nel 2006 viene superata da Whirlpool in seguito all’acquisto dell’americana Maytag; peraltro Whirlpool stabilisce in Italia la sede centrale della sua controllata per l’intera area europea; puramente residuale è invece ormai la presenza italiana di Candy Hoover. Nell’ultimo biennio, peraltro, nuovi segni di crisi sembrano addensarsi sulla leadership italiana in questo campo, con una fortissima caduta della produzione.
La qualità imprenditoriale dei produttori italiani di elettrodomestici si è consolidata nelle difficili sfide descritte in queste pagine. Ed è da qui che occorre prendere le mosse, soprattutto attraverso azioni infrastrutturali (reti, trasporti, distretti) capaci di conservare il vantaggio competitivo dell’Italia, se si vuole evitare di perdere un settore che può ancora dare al Paese sorprendenti prospettive di sviluppo.
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V. Balloni, M. Cucculelli, D. Iacobucci, L’industria italiana dell’elettrodomestico nel contesto internazionale, Torino 1999.
La città elettrica. Esperienze di elettrificazione urbana in Italia e in Europa fra Ottocento e Novecento, a cura di A. Giuntini, G. Paoloni, Roma-Bari 2003 (in partic. L. Bortolotti, La città che cambia. Le trasformazioni urbanistiche, pp. 5-17; P. Ortoleva, Una moderna Sheherazade. L’elettrificazione come processo storico e come forma simbolica, pp. 18-32).
M. Martelli, G. Paoloni, Oggetti elettrici, «L’età dell’energia», 2012, 5, nr. monografico, (22 sett. 2013).
Si veda, inoltre, il sito dell’Associazione nazionale produttori di apparecchi domestici e professionali, dove sono raccolti i dati statistici aggiornati e le serie storiche: